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Istituto di Psicologia Somatorelazionale

Fondato e diretto da Luciano Marchino

IN VIAGGIO CON LA BIOENERGETICA

10 Ottobre 2017

di Ornella Gava

La toccante e profonda condivisione di una persona che ha trovato nella Bioenergetica un prezioso e indispensabile strumento di crescita e presenza.

 

Iniziare le classi di bioenergetica è stato per me come partire per un viaggio, non un viaggio in un posto nuovo, in una terra sconosciuta, piuttosto un viaggio di ritorno verso casa, alcune volte percorrendo a ritroso strade per le quali ero già passata, altre volte camminando per sentieri differenti, altre volte ancora sostando per orientarmi sulla cartina o semplicemente per riposare, respirare o nutrirmi.

 

Il lavoro sul corpo non mi era sconosciuto, dopo tanti anni di yoga e arti marziali non mi suonava affatto strano che si potesse passare dal corpo per arrivare alle emozioni e alla mente, solo che non lo avevo mai considerato in associazione alla terapia psicologica come l’avevo sempre intesa e conosciuta. Così, quando mi è stato proposto di partecipare alle classi non avevo davvero nessuna idea del potenziale di questa esperienza, ma ho deciso di provarci, affidandomi. Sono entrata nelle prime classi in punta di piedi, cercando di ambientarmi e osservare gli altri, con gradualità come sono abituata a fare, ma già dopo qualche incontro mi sono accorta che potevo essere libera di sperimentare perché mi trovavo in un ambiente protetto, dove non sarei stata sola ad affrontare gli esercizi, le situazioni e le emozioni, dove sarei stata accompagnata, a volte per mano, altre semplicemente con lo sguardo, e oggi mi rendo conto di quanto ne avessi bisogno.

 

All’inizio, alcuni esercizi di bioenergetica mi ricordavano dei movimenti di yoga e, sebbene entrambi i  metodi si propongano di osservare il corpo e liberarlo dalle tensioni, lo fanno in modo che si direbbe opposto: nello yoga il corpo viene rieducato dall’esterno attraverso indicazioni posturali ben precise, nella bioenergetica il corpo viene stimolato a rieducarsi da solo dall’interno. Per poterlo fare ho cercato il più possibile di abbandonare ogni giudizio mentre facevo gli esercizi, e questo mi ha permesso di esprimermi sempre più liberamente e spontaneamente, con maggiore vitalità ma al tempo stesso con maggiore presenza e consapevolezza di quello che accadeva dentro di me, attorno a me e fra me e gli altri.

 

I sentimenti che più ho esplorato nel corso delle classi sono stati la solitudine, la tristezza, la libertà e la gioia, il coraggio e la sicurezza, la rabbia e l’aggressività.

 

 Della solitudine, espressa negli esercizi individuali, ho scoperto due aspetti. A volte è un’amica cara e necessaria, un luogo nel quale ho bisogno di dimorare per ascoltarmi con maggiore attenzione, per ritrovarmi, per andare in profondità nei punti del corpo, del cuore e dell’anima che nel corso della giornata ho trascurato o bloccato, per fretta o per necessità. L’esercizio di grounding che facciamo all’inizio di ogni classe è quello che mi dà maggior beneficio, perché mi permette di recuperare equilibrio ed energia, è quello che sento con maggiore forza. Il contatto dei piedi liberi, nudi e aperti con la terra è più di tutti quello che mi fa sentire che ci sono e chi sono. Mi sono accorta che le vibrazioni sono tanto più evidenti, superficiali e irregolari quanto più nella mia vita ho limitato la mia espressività, sono più forti e mi scuotono, mi risvegliano, fanno come un lavoro di sgrossatura. Quando invece nei giorni precedenti sono stata più libera, le vibrazioni sono più leggere, ma profonde e costanti, diventano come un’unica vibrazione, la nota di un diapason che si diffonde  in tutto il corpo. L’esercizio di grounding mi dà subito un’indicazione di come sto, ed essere da sola a osservarlo mi fa sentire presente e padrona di me stessa, capace di prendermi cura di me. Così la solitudine è piacevole e benefica. Altre volte invece la solitudine diventa pesante da sostenere, la sento imposta, e mi capita di solito negli esercizi a terra, soprattutto in quello della farfalla. È un tipo di solitudine che mi fa sentire profondamente malinconica, insicura, abbandonata. In genere riesco a stare nell’esercizio solo per pochi minuti, poi sento arrivare una grande tristezza, lo stomaco si chiude, mi viene da piangere, arrivano pensieri e immagini legati a persone o situazioni che mi creano preoccupazione o dolore ma non voglio indugiarvi, cerco di tornare ad ascoltare il corpo ma non ci riesco più, non riesco a stare nella tristezza ma non riesco nemmeno a uscire dalla tristezza, mi sento come in un limbo, in un posto in cui esisto solo sullo sfondo, perché la tristezza occupa quasi tutto lo spazio, e sento freddo. Così è stato fino a poco tempo fa, però ultimamente qualcosa sta cambiando, sto cercando di non giudicare la tristezza, la mia in primis, come un imprevisto indesiderato, di non chiudere gli occhi ma di guardarla e accoglierla, perché è uno dei tanti colori di cui sono fatta e ha tutto il diritto di emergere e di esprimersi nella sua ricchezza di sfumature.

 

Un altro sentimento che ho esplorato durante le classi è stato quello di libertà e gioia e l’esercizio che più di tutti mi ha aiutato a farlo è stato quello di muovere il corpo liberamente al ritmo di musica. Lo abbiamo fatto solo un paio di volte ma mi è rimasto molto impresso. Non era un muovere il corpo a casaccio, disordinato, per il puro piacere di far passare il tempo senza dover seguire delle indicazioni, ma un lasciare al corpo la guida, senza giudizi, con la massima freschezza mentale, per sentire dove voleva realmente andare, quali parti avevano maggiore bisogno di esprimersi e quali sensazioni scaturivano dal quel movimento. Sentivo soprattutto il bisogno di muovere le braccia, di lasciarle allontanare dal tronco, di allungarle in ogni direzione e lasciarle ruotare, sventolare, ciondolare, e questo perché sentivo forza nei piedi e nelle gambe, sentivo di essere sostenuta da fondamenta ben bilanciate, dopo il grounding. Ogni tanto aprivo gli occhi e guardavo gli altri. Probabilmente anche per loro come per me era un’esperienza intensa, per qualcuno difficile, per qualcun altro piacevole, per qualcun altro ancora giocosa, o dolorosa. I movimenti liberi e ampi rendevano più evidente ai miei occhi rispetto ad altri esercizi che, pur lavorando ciascuno su di sé, eravamo un gruppo, generavamo ciascuno la propria energia e poi la scambiavamo con quella degli altri, generando un’energia collettiva, perché, come dice John Donne, “nessun uomo è un’isola”. Lo stesso accade quando camminiamo tutti insieme liberamente per la stanza o quando emettiamo un suono stando in cerchio, all’inizio ciascuno ha il suo passo, il suo suono, ciascuno esprime i propri bisogni, lascia andare le proprie tensioni, fino a che si crea una sorta di appagamento perché ciascuno può essere ciò che è, e allora i singoli movimenti e suoni si modificano un po’, e al disordine e alla dissonanza segue un bilanciamento, un’armonia collettiva, che è di tutti e aiuta tutti.

 

Un altro sentimento che ho esplorato è stato quello del coraggio, della sicurezza in me stessa, che arriva quando smetto di dare un’importanza sbilanciata agli altri, tenendo me stessa in secondo piano. Questo avviene negli esercizi in coppia, soprattutto in quelli in cui sostengo un’altra persona e poi mi lascio sostenere, o in cui massaggio l’altra persona e poi mi lascio massaggiare, o ancora quando ci guardiamo negli occhi. Le prime volte ero attenta soprattutto ad ascoltare di cosa avesse bisogno l’altro, perché potesse stare bene, cercando di dargli più quello che gli occorreva che quello che sentivo di dare o potevo dare, e a volte con fatica. Avevo anche difficoltà a comunicare di cosa avevo bisogno, probabilmente perché non ne avevo un’idea chiara nemmeno io, così mi convincevo che quello che l’altro mi dava fosse proprio quello di cui avevo bisogno. Mi rimaneva però un senso di finta soddisfazione. Poi ho iniziato a dare con sincerità quello che potevo, senza tirarmi indietro e senza strafare, facendo sentire all’altro che potevo sostenerlo nonostante la mia corporatura esile ma anche comunicandogli il momento in cui per me un sostegno da equilibrato diventava forzato. Nel farmi sostenere, ho a un certo punto provato non solo ad accontentarmi di quello che arrivava spontaneamente, ma a chiedere all’altro quello che di cui avevo bisogno. A volte è arrivato, altre no, ma il solo fatto di aver chiesto mi ha reso più serena nell’accettare quello che l’altro sentiva di dare. Esplorare queste dinamiche mi ha aiutata a capire che solo in un flusso di dare e avere davvero equilibrato c’è generosità, e che per poter essere davvero generosi bisogna prima essere coraggiosi.

 

Infine, per quanto riguarda l’aggressività e la rabbia penso che la mia strada sia ancora lunga, perché il giudizio in questo caso ancora non riesco a sospenderlo.